Quarta intervista
ufficiale per il nostro blog di Operazione Nostalgia Musicale. E’ il turno di
un cantautore e autore molto apprezzato dalla critica che in carriera si è
aggiudicato diversi premi musicali (Musicultura 1995, Miglior cantautore
dell’anno 2001 per il MEI, Miglior Autore a Sanremo 2005, Premio Lunezia Elite
nel 2006 per citarne alcuni), scrivendo per e con artisti come Niccolò Fabi,
Daniele Silvestri, Al Bano, Giorgia e Nicky Nicolai. E’ inoltre tra i fondatori
dell’associazione culturale Apollo 11 di Roma da cui è nata l’Orchestra di
Piazza Vittorio e del “Collettivo Angelo Mai”, punto di riferimento per la
scena cantautorale romana e italiana. Quest’anno si celebreranno i 20 anni
dall’uscita del suo primo album “Dispari”. Lui è Pino Marino!
Come ti sei avvicinato al mondo della musica?
Mi fai fare un salto indietro, eh? In
assoluto, l’avvicinamento all’ascolto percepito, non mi ricordo più quando è
accaduto. Non so dirti esattamente quale è stato l’innesco, probabilmente da
piccolo in macchina con mio padre, mentre ascoltava le cassette Super 8, fra
cui Ennio Morricone e diversi altri. Daterei invece l’incontro con la musica
reale, quello che per me è il fare musica, a un incontro su via Giovanni Lanza
a Roma, camminando davanti alle vetrine del negozio di pianoforti “Bontempi”
vidi un pianoforte antico, di quelli intarsiati con le teste di leone. Rimasi a
guardarlo per una mezz’oretta da quella vetrina e mi misi in testa che i primi
soldi guadagnati li avrei concentrati per l’acquisto di quel pianoforte. Sono
passati diversi anni da quel momento, ma non ho più trovato quel pianoforte
disponibile. Effettivamente la prima cosa che ho fatto poi al primo guadagno è stata
tornare in quel posto, conoscere i fratelli Bontempi che nel frattempo sono diventati
amici e comprare un pianoforte usato da loro. Con quello ho iniziato a prendere
lezioni, a studiare. Prima classico e poi il resto, e poi in seguito a scrivere
canzoni. L’incontro con la musica reale per me è fisico, amore fisico con uno
strumento. E da lì tutto quello che ho dovuto fare per inseguire la possibilità
di acquistarlo. L’incontro musicale per me è fisico, quindi la prima cosa che
mi è venuta in mente è l’incontro con quel pianoforte lì. L’incontro con la
musica in realtà, quello non fisico, quello emotivo (e quindi legato
all’ascolto), per noi non proprio più esattamente adolescenti si perde un po'
nel tempo, si confonde, non ci si ricorda più esattamente quale sia stato
esattamente l’innesco, il motivo, l’ascolto di quale cosa o la visione di quale
cosa che ci abbia mosso. Invece in me rimane molto definito l’incontro fisico,
quella cosa lì.
Negli anni ’90 è poi iniziata la tua
carriera da cantautore ed autore, carriera poi iniziata nel 1996 e che ti ha
portato a firmare due brani che hanno fatto parte della rosa dei Big del
Festival di Sanremo, tutti e due entrati tra i primi 10 della classifica
finale, che sono “E’ la mia vita” di Al Bano e “Strano il mio destino” di
Giorgia.
Beh, considera che l’amore per il
pianoforte mi ha portato per diversi anni a lavorare poi con i pianoforti,
frequentando anche un laboratorio e diventando anche un restauratore di
meccaniche di pianoforti, questo per parlare di fisicità e questo la dice lunga
su quanto io intenda fare, più che pensare rispetto anche alle cose che in
realtà non sono materiali come la musica, proprio come artigiano. E nel mentre
lavoravo con una ditta importante, in realtà usavo il tempo per rimanere sul
pianoforte anche la sera, a laboratorio chiuso, a negozio chiuso per scrivere
canzoni. Andai da un editore. L’editore mi disse che quello che scrivevo era
ancora un po' complicato e ci sarebbe voluto del tempo per trovare un pubblico
per quelle canzoni, ma mi propose di diventare autore per qualcuno. Nel
frattempo avevo già vinto il Premio Città di Recanati, Musicultura (nel 1995)
con un gruppo nato al Folkstudio chiamato Pi.Ste.Da.Pi. con Danila Massimi e
Stefano Rossi Crespi. A quel punto accettai questa “proposta al buio”
dell’editore, che mi mise a lavorare con Maurizio Fabrizio. Maurizio Fabrizio è
il compositore, per dirne una, di “Almeno tu nell’universo” per Mia Martini. Scrivemmo
insieme questa canzone per Al Bano. Da lì è partito fondamentalmente il
traghettamento a considerare quell’attività un lavoro. E arriviamo al 1996.
E da quel momento è iniziata una
carriera costellata di premi per te…
Costellata anche di persone incontrate,
diversi gruppi. Gente come Marco Siniscalco, Arnaldo Vacca, tanti musicisti
incontrati in quegli anni… Lì ho cominciato a concepire le cose anche per me,
tenendo sempre in parallelo l’attività di autore perché è molto interessante
percepire cose non destinate a te. Ti fa muovere in un recinto diverso, ti
permette di ampliare proprio la visuale. Nel 1997-98 è arrivato poi l’incontro
con Pino Pecorelli e Fabrizio Fratepietro, attualmente ancora miei amici e
collaboratori del mio primo disco chiamato “Dispari” (ci abbiamo lavorato
insieme). Nel 1998-99 invece c’è stato l’incontro con Stefano Senardi, già
presidente della PolyGram e varie altre cose, che mi propose un contratto di
cinque dischi e da lì iniziammo con Pino Pecorelli e Fabrizio Fratepietro a
lavorare a “Dispari” e via via ai dischi successivi.
Come è nata l’ispirazione per quanto
riguarda la nascita dei brani dell’album “Dispari”?
Dispari in realtà vive, anzi gode, di
una raccolta di canzoni, perché il primo disco è sicuramente il luogo,
l’appartamento, il contenitore dove abitano canzoni scritte da un certo momento
in poi. Mentre nei dischi successivi le canzoni ovviamente sono quelle che sono
state scritte tra un disco e l’altro, il primo disco gode di una sorta di
censimento e raccolta tra tutte le canzoni che ho iniziato a scrivere negli
anni precedenti quell’occasione. Tra i brani di “Dispari” 3 o 4 saranno stati
scritti a ridosso del contratto e nel corso della realizzazione mentre gli
altri brani sono 7 o 8 canzoni che ho scelto tra quelle che ho cominciato a
scrivere dal 1992 fino al 2000, anno in cui si è realizzato il disco. Quindi il
criterio che ci siamo posti insieme a Davide Petrosino che lavorò alla
produzione artistica e a Mauro Pagani (violinista di PFM, De André e tanti
altri noi tra le altre cose), che collaborò alla produzione artistica facendomi
registrare a Milano alle Officine Meccaniche, è stato quello di trovare un filo
conduttore tra i brani scritti in quell’anno e gli altri scelti tra i brani
scritti negli anni precedenti il disco. Questo perché da quel momento in poi ho
sempre tenuto a considerare gli album come dei concept, anche in modo non
feroce e non rigorosissimo. Però ho sempre considerato il titolo del disco il
seme conduttore di tutta la narrazione, quindi in base a quel titolo che ho
scelto sono stati stabiliti i brani scritti negli anni precedenti che avessero
un gancio con il filo conduttore di quel titolo. Ed è nata da lì la scaletta
che ha composto quel disco.
E’ stato un anno molto importante per te
anche il 2005, principalmente per due accadimenti: il ritorno come autore al
Festival di Sanremo per Nicky Nicolai e Stefano Di Battista e il passaggio alla
casa discografica Radio Fandango di Domenico Procacci per la quale hai
pubblicato il disco “Acqua luce e gas”. Parlaci di questa doppia esperienza di
quell’anno.
Beh, a “Dispari” del 2000 segue “Non
bastano i fiori” del 2003, un disco per me molto importante perché l’esperienza
del primo disco è un’esperienza che subisci in qualche modo, perché è un
privilegio, è un subire in privilegio, in quanto hai la possibilità di farlo ma
non conosci minimamente alcun tipo di passo, alcun tipo di passaggio che quella
possibilità comporta, quindi subisci un po' tutte le fasi. Mentre il secondo
disco “Non bastano i fiori” del 2003, sempre condotto insieme a Fabrizio
Fratepietro e Pino Pecorelli era proprio un passo liberatorio, o meglio: la
consapevolezza di conoscere tutti i passi dalla creazione alla produzione,
dall’uscita alla promozione, dal tour alle date, ai concerti con cognizione di
causa maggiore e quindi con una serenità maggiore. Per rispondere alla domanda,
arrivati nel 2005, la casa discografica di Stefano Senardi chiuse e quindi non
potemmo insieme ottemperare al contratto di cinque dischi ma in un concerto
venne a trovarmi Domenico Procacci, noto produttore cinematografico di
Fandango, che nel frattempo si era appassionato al mio percorso, e si propose
di essere lui a continuare questa possibilità di produzione. Accettai,
strutturò un po' meglio la sua Radio Fandango, Senardi grazie a quest’occasione
divenne un collaboratore di Procacci e della sua etichetta e lavorammo a quel
disco non più con Pecorelli e Fratepietro ma con Andrea Pesce, già produttore e
tastierista dei Tiromancino, un vecchio amico con cui fondammo insieme il
Collettivo Angelo Mai. Ci lega un’esperienza molto lunga di amicizia e di
collaborazione. Nel 2005 ci fu anche la richiesta di partecipazione a quel
Festival di Sanremo, con un brano che poi vinse la categoria Gruppi, io presi
questa famosa statuetta, il famoso “leone con la palma” perché quell’anno
premiarono anche il “Miglior Autore”.
“Acqua Luce e Gas” entrò anche in
nomination l’anno successivo al Premio Tenco per la categoria Miglior disco
dell’anno…
Mi ricordo la cinquina: c’eravamo io, De
Gregori con “Calypso”, Bersani, i Baustelle e Vinicio Capossela che vinse con
“Ovunque proteggi” dominando la cinquina. Tra l’altro, per fare un passo
indietro, conobbi Capossela registrando “Dispari” (stavo registrando a Milano
nello Studio B delle Officine Meccaniche) e al di là del corridoio dello Studio
A c’era Capossela che stava registrando con Pasquale Minieri e stavano
registrando “Canzoni a manovella”.
Hai parlato poco fa dell’Angelo Mai.
Quale è stata per te l’importanza del Collettivo Angelo Mai nello sviluppo
della scena musicale romana dagli anni 2000 in poi.
Ci siamo resi conto negli anni a seguire
di quanto sia stata importante quell’esperienza non a livello romano ma a
livello italiano. Ho sempre creduto molto per istinto alla natura “collettivo”,
cioè alla capacità e alla possibilità di rinunciare, indietreggiare di un metro
rispetto a sé stessi, per poter vedere avanzare un’idea allargata. Infatti
ancor prima del Collettivo Angelo Mai sono stato tra i primi fondatori
dell’Associazione Apollo 11 e creammo con altre otto-nove persone l’Orchestra
di Piazza Vittorio.
E mi hai praticamente anticipato perché
avevo pronta anche una domanda sull’orchestra di Piazza Vittorio… visto che ci
siamo parlaci anche di come è nata l’idea dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
Guarda, in ordine cronologico ti parlo
prima dell’Orchestra di Piazza Vittorio perché si tratta della prima grande
esperienza di progetto di risultato collettivo. Tra i fondatori c’era Mario
Tronco (già Avion Travel), Agostino Ferrente, che poi è il regista con cui
girammo il film “L’Orchestra di Piazza Vittorio” e incominciammo in quel
periodo all’Esquilino a cercare tutti quei musicisti che in realtà potevamo
ammirare sotto i portici dell’Esquilino suonando in modo pazzesco diversi
strumenti ma tutti musicisti che poi vedevi andare in fuga al primo
lampeggiante della Polizia che girava nel quartiere, perché tutti o quasi senza
permesso di soggiorno a disposizione. Quindi l’idea dell’organico fu proprio
quella di riuscire a reclutarli tutti, selezionando anche il tipo di strumento
e poter scritturare loro attraverso un contratto con una cooperativa e
attraverso questo contratto di lavoro dar loro la possibilità di ottenere il
permesso di soggiorno e lavorare stabilmente nell’orchestra. Da qui nacque la
necessità di avere un luogo, perché senza luoghi le idee vanno perse, e quindi
era necessario creare una casa per quest’orchestra e ci insediammo all’interno
dell’Istituto Galileo Galilei con l’Apollo 11 (struttura che ancora c’è e
ancora produce su Roma tante occasioni culturali) e da lì, nel giro di pochi
anni, l’Orchestra di Piazza Vittorio ha avuto modo di viaggiare per conto
proprio, abbiamo poi costituito la società che la tutelasse, e poi ormai
l’Orchestra di Piazza Vittorio è diventata quello che è a sua volta creando
orchestre a catena. Da lì nacquero diverse cose, e Pino Pecorelli che oltre a
essere il mio contrabbassista fu il primo musicista intorno al quale creammo l’organico
dell’Orchestra di Piazza Vittorio, e a sua volta poi negli anni ha fondato e
tuttora guida la Piccola Orchestra di Tor Pignattara, che è una sezione
giovanile di orchestra etnica, che raccoglie giovanissimi musicisti di ogni
nazionalità per lo più residenti nel quadrante Tor
Pignattara-Casilino-Prenestino-Pigneto. Poi, anni dopo, con Andrea Pesce
fondammo il Collettivo Angelo Mai per istinto, perché nel convitto occupato di
Via degli Zingari dove intervenimmo con un mio concerto per dedicare
l’attenzione e qualche risorsa economica a un gruppo di persone che senza casa
aveva occupato e abitava quell’antico stabile abbandonato e occupato, e da lì
in poi abbiamo creato questa struttura, quest’organico di musicisti allargati
che lì provava, studiava, componeva e nel giro di due anni abbiamo mosso un
numero enorme di persone in città, arrivando anche a un grosso livello di
attenzione e siamo riusciti a ottenere molte cose per queste persone, ma non ci
siamo resi conto che stavamo ottenendo molte cose per quanto riguarda un nuovo
aspetto di comunità musicale in Roma. Poi lasciammo quel posto in via degli
Zingari e ci offrirono di spostarci in un altro luogo e Walter Veltroni ci
affidò un pezzo di parco alle Terme di Caracalla (nel Parco San Sebastiano)
facendo una vera e propria assegnazione, e da lì abbiamo lavorato tre o quattro
anni, girando e facendo concerti con il Collettivo Angelo Mai, vendendo il
nostro disco autoprodotto e con i soldi realizzati abbiamo cominciato a creare
un teatro all’inglese all’interno del Parco San Sebastiano (nell’attuale sede)
e dopo tre-quattro anni di lavoro siamo riusciti a insediarci in un nuovo
luogo. E lì ci siamo poi resi conto che quel tipo di sonorità, quel tipo di
modo di registrare, quel modo interattivo di scrivere, cantare e suonare
contemporaneamente tutti, in breve tempo era arrivato all’attenzione di tanti
artisti non soltanto romani ma italiani. Fra gli amici più stretti legati a
quell’esperienza ci sono Manuel Agnelli e tantissimi altri. Tant’è vero che
Rodrigo D’Erasmo, che era il violinista del Collettivo Angelo Mai, divenne poco
tempo dopo il violinista degli Afterhours. Stessa cosa per Gabriele Lazzarotti,
il nostro bassista che divenne il bassista di Niccolò Fabi e Daniele Silvestri,
così come accaduto per Fabio Rondanini, uno dei due batteristi del Collettivo
Angelo Mai, entrato a far parte anche dei Calibro 35 e degli Afterhours. Esempi
che la dicono lunga su quanto in realtà quel gruppo di lavoro ha prodotto non
soltanto un’idea nuova di realizzare, ma ha prodotto anche figure di spicco che
hanno avuto modo poi di uscire da Roma e professionalmente collocarsi anche
altrove.
Tra l’altro, a proposito di Daniele
Silvestri e Niccolò Fabi, negli anni hai avuto modo di collaborare con
entrambi. Per Fabi hai firmato uno dei suoi maggiori successi della sua
carriera recente che è “Aliante”.
Con Niccolò c’è una grande amicizia,
siamo molto diversi nel modo di rapportarci come è giusto che sia, ma in
amicizia c’è sempre la possibilità di confronto. Un giorno, lavorando insieme,
perché facemmo anche un tour insieme (c’era anche Roberto Angelini) in un
periodo in cui il Collettivo Angelo Mai per questioni pratiche doveva star
fermo, Niccolò ha pensato di aggregare al suo tour me e Roberto Angelini
proprio come spalla integrante al suo concerto, sia come apertura che
all’interno del live stesso e questo ci ha dato modo di continuare a parlare
del Collettivo Angelo Mai anche andando in tour, e questo è stato un grande
aiuto da parte di Niccolò in quel momento, da lì si è stretta non soltanto
l’amicizia ma la cognizione del lavoro, e un giorno riflettendo con lui gli
proposi questa canzone, anzi no, gli proposi l’idea perché lui tende a partire
come firma, come cifra di scrittura a partire sempre da sé stesso come punto di
osservazione. Mentre Daniele Silvestri, altro mio amico, è un autore
diversissimo e si lancia su soggetti e prospettive diverse non sempre parlando
di sé in prima persona ma variando tantissimo il suo punto di vista, Niccolò è
uno che coerentemente a questa modalità usa sempre sé stesso come centro, come
pallino del racconto. La mia proposta fu, per una volta, di provare a
scardinare questo angolo funzionale per lui di partenza e parlare di altro. E
“Aliante” (la musica è sua, il testo è mio) non è altro che il racconto della
nostra amicizia. Dove lui è l’aliante elegante bianco che svolazza e io, in
quel caso in direzione contraria (perché facevamo un viaggio diverso) e io il
dirigibile. E questi due elementi aerei abbastanza somiglianti l’uno dall’altro
secondo il mio punto di vista di quel momento, l’aliante e il dirigibile, si
incontrano ciclicamente nel cielo e incontrandoli in quel momento si rendono
conto che in realtà la lontananza in amicizia non è mai distanza e quindi si
raccontano quello che avviene sotto di loro guardando il naso della gente che
li guarda volare.
Due anni dopo è arrivata la
collaborazione con Daniele Silvestri per l’album “S.C.O.T.C.H.”.
Guarda, più che l’album SCOTCH è
successa questa cosa. Mentre Daniele scriveva e preparava il live di SCOTCH,
Daniele mi disse che gli avevano proposto un concerto di canzone-teatro, o
meglio teatro-canzone, in una rassegna a Caserta, nel Teatro della Rocca di
Caserta Vecchia, un posto meraviglioso, dove ogni anno facevano questo festival
particolare, e gli proposero uno spettacolo di teatro-canzone. Daniele, da
amico che aveva appena assistito a un mio spettacolo che si chiamava “Il
Concertacolo” in cui c’era molto testo, uno spettacolo teatrale dove in realtà la
gente viveva un equivoco temporale, ci trovavamo tutti a vivere una cosa
spostata nel tempo, cose già accadute, era un mio gioco sul tempo. Daniele poi
vide la parte e mi disse: “Senti, perché non facciamo il tuo spettacolo,
prendiamo quest’occasione di Caserta, magari mi inserisco anche io con delle
canzoni mie e pensi a una regia che possa coinvolgere anche me e facciamo
insieme questa cosa”. Nel giro di un mese ho messo su tutto questo prevedendo
anche lui e la sua band e la cosa che è accaduta è che facendolo a Caserta in
prima assoluta, i promoter da quel momento hanno cominciato a comprare quello
spettacolo e quindi da una situazione che sembrava essere una tantum il tutto
si è trasformato in un anno di tournée. Abbiamo organizzato nel corso dell’anno
dall’Arcimboldi di Milano al Metropolitan di Catania una grande tournée per
tantissimi teatri italiani con quello spettacolo teatrale e musicale che porta
il titolo di “E l’inizio arrivò in coda”. Spettacolo estremamente divertente,
tre ore di spettacolo folle e molto bello per chi ha avuto modo di vederlo in
quell’anno. Abbiamo sempre nel cassetto con Daniele la voglia di riprendere il
secondo atto di quello spettacolo con una nuova idea che ho già pronta, e
sicuramente arriverà il momento in cui a sorpresa lo mettiamo su e tiriamo
fuori il seguito di quella storia. E questo era contemporaneo a SCOTCH, infatti
Daniele si trovò a una doppia tournée. In quello stesso anno aveva la tournée
nei club per l’album SCOTCH e la tournée teatrale con me “E l’inizio arriva in
coda”: un anno molto denso.
Qual è per te l’importanza del rapporto
tra te e il teatro.
Vitale. Ti confesso un mio piccolo
difetto di percezione nei confronti del cinema: da piccolo mi rifiutavo di
vedere i film perché non riuscivo a far pace con questa cosa, con il come il
film viene girato, con il prodotto del film ormai finito e proiettato in sala,
potesse in realtà rimanere indifferente a quello che succedeva in sala, o
meglio, pensavo “ma se in questo momento sparano a uno nella quarta fila o
semplicemente scappa uno in seconda fila o crolla il tetto del cinema questo
film ma avanti lo stesso, l’attore dice sempre la stessa battuta e tutto va
avanti indifferentemente”. Questa mia concezione folle mi ha messo nella
condizione di vedere molto meno cinema e molti meno film e cercarmi molto di
più le situazioni in cui tutto potesse essere in realtà suggestionato e messo
anche in crisi oppure esaltato da questioni più vive. E quindi il teatro mi ha
affascinato molto di più. Mi ricordo lo spettacolo con Dario Fo e Franca Rame,
“Il papa e la strega” mi sembra di ricordare, in cui vidi quattro repliche di
fila perché mi incuriosiva questa dinamica di proporre tutte le sere la stessa
cosa che poi in realtà non è mai la stessa, perché cambia umore e clima ogni
sera. Durante la terza serata qualche tecnico lasciò una lattina di Coca-Cola
su una specie di balconcino finto presente nella scena. A un certo punto appare
questa Coca-Cola che evidentemente nella lavorazione, nell’allestimento, nel
tirare la scena, nel preparare tutto lo spettacolo, era rimasta lì. La lattina
di Coca-Cola improvvisamente diventa per Dario Fo la possibilità di agganciare
un’altra cosa, al pubblico di vivere quella nuova cosa, e improvvisamente una
semplice lattina di qualche centimetro aveva completamente spostato una
scrittura per poi tornare nella scrittura. Questo è per me rimasto il vero
principio fondante della condivisione dell’evento mobile, dell’evento vitale,
del mio rapporto con il teatro. Poi negli anni sono rinsavito e ho anche
incominciato a vedere in ritardo un bel po’ di film perché ho fatto pace con il
fatto che ci potesse essere anche qualcosa che in realtà se ne fregasse di noi
e andasse avanti comunque liberamente perché già così concepita per sempre.
Questo periodo di quarantena per tutti
noi è anche un po' un periodo di pausa e di riflessione per gli artisti. Ma tu
non ti sei fermato e hai inventato anche delle nuove rubriche come per esempio
l’ “In a Meter Show” che ogni giorno svolgi su Instagram. Parlaci di questa tua
idea.
C’è una cosa che mi ha colpito molto,
un’altra collaborazione, l’ultima nata in ordine cronologico ma molto fondata,
che è una collaborazione con Vinicio Marchioni, attore nato da Romanzo
Criminale ma poi in realtà ha studiato molto in teatro. Mi propose di scrivere
le musiche per un suo pallino. Lui voleva mettere in scena lo Zio Vanja di
Cechov, erano quattro anni che lavorava a quest’idea, me ne ha parlato e ho
scritto le musiche originali per questo spettacolo e lavorando proprio all’allestimento
(poi in questi anni abbiamo fatto nei tempi recenti una tournée terminata a
marzo, abbiamo fatto I Soliti Ignoti, con lui alla regia e io alle musiche
originali, e ci siamo fermati per via della pandemia, avevamo fatto sessanta
date e le ultime venti sono sfumate per colpa della pandemia) ho scoperto
quanto fosse importante per Cechov anche nell’indolenza dei suoi personaggi
questa lentezza di questi personaggi che in realtà non pronunciano mai cose
fondamentali, ma anzi quanto fosse importante per lui fare più che dire, più
che pensare di essere qualcosa, più che tentare di far credere agli altri chi
uno è. E questa cosa del “fare” mi è rimasta molto presente. Nel momento in cui
il “fare” ci è stato proprio decapitato perché per noi che facciamo della
mobilità e dell’incontro sociale il nostro vero lavoro (è vero che noi passiamo
le nottate a scrivere e a concepire, ma tutto questo diventa reale e compiuto
grazie alla mobilità, al transito e alla socialità, che sia il concerto, che
sia lo spettacolo, che sia la riunione, l’intervento, la masterclass,
l’incontro con le scuole o con le università), mi è venuto a galla questo
concetto di Cechov e ho pensato “bisogna fare, tutto il resto è roba che va e
viene”. Bene, che cosa faccio? Siccome il decreto attualmente in vigore prevede
la distanza di un metro, la prima mattina dopo il lockdown penso “che cosa
posso fare in un metro? Qual è l’ambiente reale che misura un metro?”,
sedendomi in bagno la mattina mi sono reso conto che dal mio water alla parete
di fronte c’è esattamente un metro. E quindi quello è diventato il palco e lo
scenario in cui ogni mattina produco qualcosa di un minuto, perché 59 secondi
rientrano nella possibilità di caricare qualcosa su Instagram senza essere
interrotti, e tutte le mattine ininterrottamente da quel giorno (e procederemo
finché ce ne sarà la necessità) faccio. Il fare comporta questa cosa, comporta
apparentemente un dispendio perché non smetti anche di pensare cosa fare, ma il
fare ha in sé un germoglio continuo di fare altro. Quindi non è detto che
questa cosa non ne diventi un’altra nel momento in cui speriamo presto cesserà
questa costrizione.
Progetti futuri?
Il primo in ordine assoluto è il nuovo
disco, la pubblicazione del nuovo disco a 20 anni dall’uscita della prima
pubblicazione, quindi quest’anno ho pronto un disco di cui è stata rallentata
la realizzazione perché quando è partito il lavoro che ci hanno commissariato
da Napoli per la realizzazione, per la prima realizzazione mondiale perché
nessuno l’aveva mai fatto prima in teatro (I soliti ignoti) e quando Vinicio ha
iniziato a lavorare alla regia e io alle musiche abbiamo iniziato a impiegare
due-tre mesi di lavoro alla tournée che in origine come detto prima comprendeva
ottanta date e ne abbiamo fatte sessanta fino al blocco dei primi di marzo, e
quindi abbiamo rallentato un po'. Come ci siamo fermati per questa cosa, mi
sono riprecipitato in studio con Fabrizio Fratepietro a scrivere i brani
mancanti per la realizzazione del nuovo disco. Ora siamo in difficoltà anche in
questo senso perché ci siamo dovuti fermare anche con lui a causa dello studio
chiuso e varie altre cose. E quindi i progetti futuri sono: uscire con un
singolo, mi auguro per maggio di farcela, un singolo per me importante con un
videoclip per me importante con un regista che stimo molto, siamo pronti per
farlo a maggio e nel periodo estivo fra maggio e giugno chiudere
definitivamente le parti mancanti e mixate al disco ed essere pronti per uscire
mi auguro per settembre-ottobre. Questo è il progetto principale, poi come già
detto, ho sempre tantissime cose parallele, ma vorrei concentrarmi su questo
progetto anche per rispettare il ventennale, che vorrei omaggiare in questo
modo perché non è detto che sia proprio dovuto riuscire a fare vent’anni di
carriera.